martedì 3 luglio 2012

Recensione di "Diario di un dolore" di Clive C. Lewis


“Nessuno mi aveva detto che il dolore assomiglia tanto alla paura. Non che io abbia paura: la somiglianza è fisica. Gli stessi sobbalzi dello stomaco, la stessa irrequietezza, gli sbadigli. Inghiotto in continuazione.
Altre volte è un’ubriacatura leggera, o come quando si batte la testa e ci si sente rintronati. Tra me e il mondo c’è una sorta di coltre invisibile…”.
Come dar voce alla sofferenza, al dolore, all’angoscia che ti pervade l’anima? Come esprimere uno stato d’animo e un trasporto emotivo capace di stravolgerti radicalmente l’esistenza?
Questo nostro vivere è attraversato da un’infinità di emozioni che non sempre è facile descrivere. Del resto, come mettere su carta l’indescrivibile?
Eppure Lewis lo ha fatto! Ed è proprio arrivati a questo punto che diventa difficile inserire il suo capolavoro all’interno di una categoria, di un genere.
Di che si tratta? Filosofia? Psicologia? Saggistica?
Direi piuttosto che si tratta di vita. E la vita non ammette queste distinzioni perché riguarda da vicino chiunque abbia avuto nella vita un dolore. La sofferenza, l’angoscia, la disperazione, lo sconforto, lo smarrimento, come mette in rilievo Lewis, fanno parte dell’amore e con esso della vita stessa. Quindi, prima o poi, l’uomo dovrà fare i conti con questi sentimenti e dovrà fronteggiarli da solo perché non esiste condivisione che arrivi là dove il dolore nasce e cresce.
Il libro, infatti, è l’osservazione lucida, fredda e dettagliata, di tutte quelle emozioni che il cuore e il corpo avvertono di fronte ad un dolore immenso come quello legato alla perdita della persona infinitamente amata. Il testo, attraverso la narrazione dell’uomo-Lewis, è capace di dar vita ad una sorta di fotocopia emozionale in cui l’uomo e lo scrittore si annullano magicamente per dare spazio ad una “voce narrante” che, come una macchina, registra gli urti e i piccoli movimenti del cuore.

Tina Cancilleri

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