domenica 14 febbraio 2021

L'angolo delle recensioni con Valentina Belgrado e il suo "Disforia" (Ensemble edizioni)

 


Chi mi legge da tempo sa che non ho mai amato la parola recensione. Recensiscono gli esperti, i professionisti, gli addetti ai lavori, ma mai lettori. I lettori, come dice la parola stessa, semplicemente leggono e, se hanno la fortuna di imbattersi in un buon libro, empatizzano con i personaggi e gli autori che hanno donato loro emozione, riflessione, conoscenza, bellezza. Una bellezza che nasce nel momento in cui si sente il bisogno di trattenere il mondo che hanno attraversato tramite le pagine intrise di inchiostro e di vita. Una vita che Valentina Belgrado ci racconta attraverso la narrazione di Manfredi/Frida. E' una narrazione intima, profonda, delicata. Delicata come Manfredi, il protagonista, che ci prende per mano e ci introduce in un universo in cui parole come disforia (che troviamo solo nel titolo del romanzo), gender fluid, tomboy, detransizione, non assurgono mai a definizioni o formule pretestuose che implicano giudizio o volontà di polemica su un argomento molto dibattuto ma poco conosciuto. Sono parole! Parole che ci invitano a non soffermarci alla superficie ma ad intraprendere empaticamente un cammino in cui la storia del protagonista divenga la nostra storia. La storia di una persona che con delicatezza e discrezione ci racconta di sé, del suo percorso, delle sue vicissitudini familiari e di come essa sia divenuta la portavoce inconsapevole di altre parole. Parole che ci inducono a cogliere le sfumature del nostro esistere da più angolazioni e da più punti di vista. Ed è proprio nel momento in cui la nostra osservazione diviene più significativa e attenta che prendono corpo altre parole e altri spaccati di vita. Spaccati che rappresentano la nostra realtà e che, purtroppo, fanno parte del quotidiano. Un quotidiano che l'autrice, con sapienza e maestria, ci racconta attraverso i ricordi del protagonista. Un protagonista che, come ci ha abituato sin dalle prime pagine del libro, con delicatezza e discrezione ci invita a riflettere su parole come gaslighting e antisemitismo. Parole che si allacciano, si uniscono, si mescolano alle precedenti e che ci fanno comprendere quanto siano complesse le dinamiche umane e quanto siano attuali alcune problematicità  che, seppure indossino altre vesti o vengano definiti in maniera diversa, continuano a far parte del nostro vivere quotidiano. Un vivere che sta a noi osservare da un lato con occhi lucidi e attenti e dall'altro con sensibilità e delicatezza. Una delicatezza che Valentina Belgrado ha profuso in ogni singola pagina di questo libro  che, seppur piccolo di mole (solo 47 pagine) è davvero grande nei contenuti.

Tina Cancilleri  

domenica 23 agosto 2020

I lividi invisibili della violenza psicologica

 

Ci sono forme di violenza che non sono ben visibili. Sono subdole, viscide e sfuggenti perché sfuggenti sono quelle forme di violenza che non si riescono a vedere ad occhi nudi. Occhi che, purtroppo, non riescono a cogliere la disperazione di chi, giorno dopo giorno, vede sottrarsi la propria vita e non è in grado di riappropriarsene perché intorno a sé ha un vuoto.

Attenzione! Non un vuoto qualunque, ma un vuoto che è stato pianificato silenziosamente e in maniera sottile da chi gli sta accanto.

Attenzione! Non da un uomo qualunque, ma dal suo uomo, da quel uomo che avrebbe dovuto difenderla, proteggerla, amarla. Eppure è proprio quel uomo che, in modo sadico e psicotico, senza botte o occhi neri, esercita una violenza arguta e penetrante, talmente penetrante da non rendere quella donna capace di reagire, di ribellarsi, di opporsi a quella lenta e quasi inesorabile distruzione di se stessa. Un “se stessa” che non riconosce più perché deprivata della sua essenza vitale, della sua volontà di riemergere da quelle macerie interiori in cui è caduta. Macerie che sembrano irremovibili perché insormontabile appare quel baratro in cui stenta ad arrivare la luce, ossia quel bagliore di speranza capace di ridare vigore ad ogni fibra del proprio essere. Un essere che ha bisogno di una piccola spinta, di gesti di conforto, di parole rassicuranti e capaci di ridestare la dignità sopita…

 

©Tina Cancilleri

sabato 14 dicembre 2019

Le parole che vorremmo...

Chissà perché è sempre così difficile parlare di malattia. Forse perché ci fa paura o forse perché, semplicemente, si ha bisogno di tempo per incanalare le emozioni che da essa scaturiscono. Emozioni che fluiscono in varie direzioni e che necessitano di essere accolte non soltanto dal malato, ma anche dal medico che lo segue e dai suoi familiari. Familiari che, spesso e volentieri, sono anch'essi disorientati e pertanto bisognosi di essere accuditi e confortati dalle parole. Parole che devono racchiudere non soltanto le informazioni relative alla malattia e al suo decorso, ma anche capaci di accogliere le loro ansie e le loro preoccupazioni, le loro attese e le loro speranze. Speranze che, in alcuni casi, sicuramente non vanno fomentate, ma vanno comunque rispettate nei loro tempi di assimilazione e acquisizione del problema. Un "problema" che richiede tempo per essere recepito e affrontato ma che, purtroppo, non sempre corrisponde al tempo del medico. Un medico che, nei limiti del possibile, dovrebbe rimanere accanto al paziente non soltanto per curare il dolore del corpo, ma anche quello dell'anima. Un'anima che vive scansioni temporali non misurabili ma a cui il medico, preferibilmente, dovrebbe sintonizzarsi per aiutare a sentire e vivere la malattia come qualcosa che fa parte di un destino comune a chi cura e a chi è curato. Solo se il percorso del medico e del malato camminano di pari passo diviene più semplice e lineare il percorso dei familiari. Familiari che, gradatamente e assieme al proprio caro, impareranno ad  affrontare in maniera più distesa e serena i sentieri del dolore.

mercoledì 23 ottobre 2019

Emozioni e parole...

Ultimamente mi ritrovo spesso a meditare sul significato delle parole. Parole che sono espressione di un linguaggio che non è solo verbale, ma anche corporeo. Quest'ultimo è un linguaggio silenzioso fatto di sguardi, di sorrisi, di lacrime che poi trovano concretezza attraverso le parole con cui si intrecciano e diventano tutt'uno. Un tutt'uno che parte da dentro e che poi si manifesta agli altri rendendo visibili le nostre emozioni. Emozioni che, nel momento in cui si palesano, divengono comunicazione, rivelazione, significazione di se stessi. Un se stessi che non può non assegnare una grande responsabilità alle parole perché esse influenzano i modi di essere emozionali, ma anche i modi di agire, delle persone alle quali ci rivolgiamo. Una responsabilità che si cela in ogni azione, in ogni decisione, e in ogni scelta, nostre e altrui. Una scelta che ci invita a rispondere a tutti quegli stimoli  che ci pervengono da quei linguaggi silenziosi che poi divengono parole. Parole che si portano dietro un messaggio che sta a noi captare, afferrare e accogliere per far sì che esse non cadano in quella sorta di "limbo emozionale" che crea vuoti. Non sto parlando di "vuoti" qualunque ma di quei "vuoti" che creano indifferenza, distacco, distanza, insensibilità, verso ciò che ci circonda e verso gli altri.

lunedì 21 ottobre 2019

Malattie "immaginarie"...

Ci sono malattie che, seppur invasive,non si vedono ad occhio nudo. Sono malattie “invisibili”, perché invisibili sono i segni di quel lento decadimento sia fisico che psicologico. Scrivo lento perché lenta è la diagnosi e lenti divengono i segni di ripresa di quel malato che, pur cercando di vivere al meglio la propria quotidianità, fatica a portare avanti le sue giornate. Giornate che diventano lunghe, insostenibili, frustranti, perché frustrante è la consapevolezza di non star bene, come frustrante è l’incapacità di reagire alle giornate no. Un no che mette dentro di tutto un po’: il dolore, la stanchezza, l’apatia, il disagio. Un disagio che mette a nudo quella malattia “invisibile” eppure così viva, così presente, così reale. Ed è quella realtà che il malato vive. Una realtà fatta di sofferenza che, a volte, risulta inspiegabile, perché inspiegabile è la diagnosi. Faccio un esempio.

Nel 1994 la fibromialgia è stata classificata come reumatismo dei tessuti molli, ma agli inizi del 1900 veniva considerata una “semplice” malattia infiammatoria dei muscoli. Alcuni specialisti la consideravano addirittura una malattia a base psicologica. La malattia degli ipocondriaci veniva definita, perché non se ne conoscevano (e non se ne conoscono ancora!) le cause. Eppure molti pazienti che soffrono di fibromialgia accusano sintomi come dolori diffusi, affaticamento, disfunzione cognitiva, problemi del sonno ed altri che gli studiosi ritengono possano essere correlati ad un coinvolgimento del sistema nervoso centrale. Tutt’ora si fa fatica a diagnosticare la fibromialgia e si fa fatica a centrare la cura. Una cura che spesso è a base di psicofarmaci (pur non essendo i pazienti malati di depressione!) e di miorilassanti che buttano ancora più giù fisicamente i pazienti. Pazienti che soffrono e che non riescono ad avere un rimedio efficace alla loro sofferenza fisica e che gradualmente diventa anche emotiva perché vorrebbero semplicemente un ritorno alla normalità…   

domenica 20 ottobre 2019

L'uso delle parole...

Ho sempre cercato di usare con parsimonia le parole. non so perché. Forse perché ho visto spesso abusarne o forse perché, semplicemente, ne avverto la complessità. Scrivo "complessità" perché le parole sono complesse e quindi vanno usate con delicatezza, con attenzione, con cura. Una cura che non deve mai mancare perché le parole, se usate in maniera sbagliata, possono ferire, lacerare, graffiare l'anima e il cuore di chi ci sta accanto. Per questo motivo vanno usate con parsimonia ed è per questo motivo che vanno usate con consapevolezza. Una consapevolezza che ci deve spingere a soppesare, ad imparare a conoscerle e a usarle nella maniera giusta. Questo non significa omettere o nascondere quelle che sono le nostre emozioni o i nostri sentimenti nei rapporti con gli altri ma usarle in maniera onesta, conoscendone il significato profondo, Solo se ne conosciamo il significato profondo possiamo prevederne in parte l'intensità ed evitare che esse divengano armi che fanno sanguinare il cuore di chi sta male non solo nel corpo ma anche nell'anima. Un'anima che va sempre tutelata se non vogliamo che le parole diventino dei macigni difficili da scardinare o rimuovere. Naturalmente tutto dipende dalle persone che abbiamo davanti e dal momento che stanno vivendo. Per questo motivo le parole dovrebbero essere sempre gentili e umane, tenere e accoglienti. Le parole cambiano il loro significato nella misura in cui cambiano gli stati d'animo e le emozioni con cui le ascoltiamo, e cambiano nella misura in cui si crea, o non si crea, una sintonia emozionale. Ciò non significa che dobbiamo essere in sintonia con tutti, ma che dobbiamo semplicemente essere delicati e rispettosi con tutti...

Tina Cancilleri

mercoledì 16 ottobre 2019

"L'Amurusanza" di Tea Ranno

Poche volte mi sono imbattuta in romanzi in cui ho sentito il bisogno interiore di rileggere più volte alcune pagine e poche volte mi sono imbattuta in romanzi che mi si sono attaccati sulla pelle e non sono riuscita a scrollarmi di dosso il turbinio di emozioni che hanno suscitato in me. Emozioni che sanno di vita, di quotidianità non detta ma respirato a pieni polmoni giorno dopo giorno perché animata da tutti quegli eventi che caratterizzano il nostro vivere. Un vivere che ci mostra le sue infinite sfumature e che vede perennemente contrapporsi il bene e il male. Un bene e un male che, in questo magnifico romanzo di Tea Ranno, si sfidano, si scontrano e si mostrano per quello che sono: due facce della medesima medaglia. Una "medaglia" che, in questo caso, è una piccola comunità, un borghetto siciliano di 5000 anime che si affaccia sul mare e che si ritrova a essere vittima della corruzione e del malaffare. Un malaffare che viene rappresentato dal suo sindaco, "Occhi janchi", ossia un uomo senza scrupoli, corrotto politicamente, mafioso e a cui si contrappone "la Tabacchera", Agata Lipari. Agata Lipari, però, non è una donna qualunque, ma è una donna che ha ricevuto tanta "Amurusanza" da suo marito (Costanzo Di Dio) e ne ha elargita altrettanta a quell'uomo accanito sostenitore dell'ideologia comunista in un'epoca e in una società in cui l'ideologia è sempre più schiava e sottomessa all'interesse personale. Un interesse personale che "la Tabacchera" non ha e che la porta a donare a quella piccola comunità qualcosa che non si può comprare: la speranza. Una speranza che cammina sempre di pari passo con l'amurusanza, ossia con i piccoli doni, i pensieri gentili, i segni e i gesti d'affetto e di benevolenza  e che porterà quella piccola comunità alla volontà di redimersi. Una redenzione che, come mostra l'autrice, è sempre possibile se si riesce a scalfire il muro dell'omertà e la collusione che, spesso e volentieri, nostro malgrado, circondano le nostre istituzioni. Istituzioni che crescono in maniera malsana perché alimentate da quelle forme di clientelismo e di favoritismo che ledono il nostro vivere civile. Una civiltà che, invece, va sempre ricercata e che in questo romanzo trova espressione in Agata, nella Tabacchera, in questa donna forte e combattiva intorno a cui ruotano voci e vite. Voci e vite il cui linguaggio allieterebbe il maestro Andrea Camilleri perché l'autrice, impegnando le pagine del suo romanzo col vernacolo siciliano, ne ripercorre la scia...
Grande Tea Ranno!
Come sempre, la sua lettura, mi ha ammalata e affascinata!