A
volte mi chiedo cosa spinga i medici a sottovalutare il malessere di un
paziente. Forse perché, a pelle, il paziente non gli sta simpatico; forse
perché i sintomi della malattia non sono “sensazionali”, o forse perché i
sintomi non presentano nemmeno tutte le caratteristiche per rientrare in una
diagnosi compiuta. Forse è proprio questa
difficoltà ad “uscire dagli schemi da manuale” che porta, poi, a forme
di sofferenze diverse da ambo i lati.
Il
medico perché “non capisce o non ha voglia di mettersi in discussione” con una
diagnosi di difficile soluzione ed il paziente perché si ritrova a dover
lottare contro i muri dell’incomprensione e contro se stesso perché inizia a
pensare di essere lui il problema.
Ed è così che inizia il calvario di tutti
quei pazienti che si ritrovano ad essere “accusati” di ipocondria semplicemente
perché il proprio malessere non rientra tra i canoni comuni. Ed è questo “non
comune” che porta a sofferenze indescrivibili. Sofferenze che non riguardano
solo l’aspetto fisico, ma anche e soprattutto quello psicologico perché non si
riesce più a dare una giusta dimensione al proprio dolore. Ed è così che inizia
una morte psicologica lenta, graduale, progressiva; progressiva come la
malattia che li colpisce e non gli dà tregua influenzando e scandendo le loro
giornate in base ai suoi ritmi, alle sue esigenze, ai suoi campanellini
d’allarme che prima erano capaci di cogliere ma che adesso li lasciano
indifferenti. Indifferenti come chi non ha dato loro ascolto ed ha
sottovalutato le loro sofferenze e le ha considerate nient’altro che
un’espressione di debolezza, di mancanza di forza, di incapacità a tollerare il
dolore.
E
non importa se adesso si è data una giusta direzione al proprio percorso di
malato. Si ha sempre paura che l’impostazione data non sia quella adatta,
quella idonea a loro perché troppe sono state le “inversioni di rotta” e troppe
sono diventate le perplessità su un’ipotetica soluzione al proprio problema.
Non è un caso che il tempo trascorso non abbia lenito il dolore ma lo abbia
accentuato e che una “terapia del dolore” venga vista come l’ennesima
invadenza, l’ennesima violenza, l’ennesimo tentativo di attenuare un dolore
che, ormai, non si è più capaci di cogliere perché non fa più parte del loro
“vocabolario” il concetto di “normalità”…
Una
“normalità” persa per sempre e che ha bisogno di essere ricostruita con canoni
diversi: quelli del malato cronico…
Tina
Cancilleri