martedì 13 novembre 2012

Perchè parlare di violenze sui minori...

Pedofilia? No, grazie!!!
Spesso, quando mi siedo e prendo carta e penna, mi chiedo quale sarà l’oggetto della mia riflessione e verso quale “direzione” mi porterà il flusso dei miei pensieri. Ultimamente, non so per quale meccanismo recondito della mia mente (o del mio cuore) mi sto ritrovando stranamente a trattare più volte tematiche sociali. Qualcuno potrebbe pensare ad una sorta di “deformazione professionale”, eppure non è così perché, come si dice in gergo, non sono un’“addetta ai lavori”. Come mi definisco? Una libera pensatrice! Ecco, forse è questo il termine giusto: libera pensatrice. E come libera pensatrice mi ritrovo a meditare sul mondo e la realtà che mi circonda…una realtà che spesso non accetto ma che mi piace osservare con occhio critico ed attento. Ma, del resto, come non farlo? Come far finta di non vedere? Come non ascoltare la voce di chi, silenziosamente, invoca aiuto e chiede di essere ascoltato…sentito…accudito… A volte, ho come la sensazione che mente e cuore camminino sullo stesso binario ma abbiano difficoltà a coordinarsi…a trovare il giusto equilibrio tra loro perché troppo grande è il turbinio dei pensieri e delle emozioni che li travolgono.

Oggi, per esempio, questi due fantastici elementi facenti parte del mio essere, ossia mente e cuore, mi hanno portato a riflettere su una tematica di cui fin troppo ultimamente si vocifera, si sussurra: la pedofilia. Dico vocifera e sussurra perché, se da un lato se ne parla, dall’altro si ha sempre una certa reticenza a parlare di argomenti che mettano in discussione i cardini di una società civile e non priva di falsi moralismi. Già! Falsi come l’imperfetta società che ci circonda e che ostenta una evoluzione ed una correttezza di fondo che, in realtà, purtroppo non possiede…
Detto questo…voglio porre l’attenzione sul concetto di pedofilia.
Il termine pedofilia deriva dal greco pedos (fanciullo/a) e filos (amante) e nell’accezione più comune viene usato, se non erro, per indicare chi abusa sessualmente di un bambino. Da quanto affermato prima si deduce che il concetto di pedofilia (scusate la ridondanza relativa al termine!) è un concetto lontano. Il suo nome ci riporta (addirittura!) alla memoria i miti dell’antica Grecia, a quando sacerdoti e maestri insegnavano l’ars amatoria ai propri allievi, intrecciando con essi un rapporto d’amore. Questo rapporto si basava sul concetto di iniziazione spirituale e pedagogica. Attraverso la continuità dell’insegnamento e l’unione sessuale il maestro insegnava la virtù del cittadino modello. Quest’atto simboleggiava la sottomissione del giovane al più anziano per essere ammesso nel gruppo dei detentori del potere ed era considerato parte integrante del processo di formazione dell’uomo adulto. Anche se la pederastia era libera e permessa dalle leggi del tempo, il rapporto sessuale tra un giovinetto e un adulto non era immediato, ma sottostava a delle regole ben precise. Il ragazzo doveva, ad esempio, essere pubere (la sua età non doveva essere inferiore ai 12 anni!). Da allora la pedofilia non è scomparsa, non è stata spazzata via dalla modernizzazione e dalle regole della vita civile. Al contrario, si è annidata nelle pieghe di un mondo sempre più assetato di nuove emozioni e che non si ferma di fronte a niente e a nessuno: nemmeno davanti all’innocenza e alla purezza di un bambino!
Scusate la crudezza delle mie parole ma non riesco a dare un freno alle mie emozioni quando mi ritrovo a riflettere su una realtà che non voglio sentire mia perché non mi appartiene ma non posso, non voglio, rimanere insensibile al grido di un bambino la cui innocenza è stata distrutta, violata e frantumata! Purtroppo la pedofilia è una realtà, come gli abusi che compie e il dolore che lascia!
Forse non abbiamo ancora capito (o semplicemente non vogliamo capire!) che dobbiamo aprire gli occhi, dobbiamo guardare oltre le mura delle nostre case, oltre le barricate del nostro mondo ideale che ci siamo costruiti! La pedofilia non è un gioco, non è un brutto film che, appena spento il televisore, non esiste più! La pedofilia è lì: nel bambino immortalato all’interno di un film hard, girato mentre si compie l’abuso; nelle riviste dell’editoria hard perché la pornografia minorile aumenta il desiderio sessuale dei pedofili; nella tristissima realtà di moltissimi minori, di differenti nazionalità, che si ritrovano in questo “giro” criminoso per motivazioni che vanno dalla miseria assoluta allo “spiacevole incidente”; nei siti internet che distribuiscono, divulgano e pubblicizzano il materiale pedopornografico nonché informazioni finalizzate all’adescamento o allo sfruttamento sessuale di minori! Attenzione! Il mio grido di allarme non è dettato dall’insana voglia di creare falsi allarmismi ma dall’acquisizione di una realtà drammatica e dolorosa ma, purtroppo, nostra.
E quello che mi fa più rabbia è che molto spesso (essendomi un po’ documentata in proposito), andando a scavare nella storia di vita del pedofilo, emerge un vissuto fatto di violenza, di solitudine e di sopraffazione. Da quanto detto si deduce che spesso il carnefice è stato a sua volta una vittima di violenze e di soprusi da bambino (la pedofilia, statisticamente, insorge nell’adolescenza!) e che quindi ha acquisito queste esperienze che poi sono diventate parte della sua personalità di adulto. Ma non possiamo ridurre la figura del pedofilo a colui che da bambino ha subito dei soprusi. Ed è qui che emerge la complessità del fenomeno, il pedofilo può essere chiunque: l’individuo colto, appartenente alle classi più agiate, magari con moglie e figli così come il tutore dell’ordine.
Mi rendo conto che l’argomento preso in considerazione è assai problematico e di non facile discussione anche perché gli interrogativi sono tanti. Magari era più giusto che fosse un esperto a parlarne e non una “libera pensatrice” che si è semplicemente limitata a mettere insieme le sue conoscenze di base in proposito. Non so! Nel dubbio...parlarne o non parlarne…preferisco sempre e comunque non restare indifferente e… parlarne.
Tina Cancilleri

giovedì 8 novembre 2012

Bullismo? Parliamone!

Bullismo? No, grazie! Parliamone!
Infinite possono essere le motivazioni come infinite possono essere le riflessioni che scaturiscono da questa parola: bullismo! Ma, cos’è il bullismo? Come riconoscerlo? Quali gli interventi e quali le strategie da adottare?
Infinite le domande e molteplici le risposte…
Risposte che, comunque, non possono delineare un problema…un atteggiamento…un disagio perché quel problema, sfortunatamente, non può essere delineato…descritto…racchiuso in un discorso rigido e schematico o in una semplice definizione. Il bullismo (iniziamo a familiarizzare con questo temine!), contrariamente al pensar comune, purtroppo è un fenomeno talmente diffuso tra i ragazzi che si ha difficoltà a riconoscerlo, ad identificarlo, ad individuarlo, a carpirne le dinamiche. Troppe sono le sfumature e poca la conoscenza.
Eppure, chi lavora nel campo della scuola non può non prender atto di un problema come non può far finta che il fenomeno non esista. Ed è proprio questa presa d’atto…questa presa di coscienza che, nell’ultimo periodo,  nonostante la mia scarsa preparazione nel campo degli studi sociali, mi ha portato a meditare sui fenomeni che, ipoteticamente, possono indurre a comportamenti violenti e aggressivi tra adolescenti.
Qualcuno potrebbe dubitare sui miei sani propositi e pensare che mi ritrovo a scrivere per il semplice spirito di contestazione e/o per il mero piacere della retorica. Come dico sempre: «Sono pronta anche a questo! Accetto tutto, anche le critiche, purché siano costruttive e mi inducano a riflettere e mi portino ad una maggiore conoscenza del problema». Un problema che non riguarda solo le “parti” coinvolte ma la società nella sua interezza. Se vogliamo un mondo sano per le generazioni future dobbiamo educare i nostri ragazzi a rispettare se stessi e ciò che li circonda e, in questo percorso di crescita e di formazione, è fondamentale che essi acquisiscano coscienza critica e desiderio di accogliere l’altro. Per ottenere questo risultato è indispensabile che l’adulto riservi un occhio attento ai più piccoli, a coloro che saranno gli adulti del futuro e trasmetta loro il concetto di cura…di accoglienza…di pacifica convivenza… Ma per ottenere questo, i primi a doversi mettere in discussione sono proprio gli adulti, coloro che, purtroppo, spesso e volentieri rimangono ancorati alle loro rigidità e fan finta di non vedere perché non vogliono andar oltre le barricate che si sono costruiti.
Ed è proprio questo il mio punto di partenza di oggi!
Uscire dalle barriere delle mie mura domestiche e del mondo fantastico che mi sono costruita e guardare oltre: oltre ogni forma di convenzione e di finto perbenismo ma, soprattutto, oltre quel velo di Maya che non mi “consente” di volgere lo sguardo verso la realtà che mi circonda.
Ho cercato di bloccare il mio pensiero sul concetto di prepotenza negli adolescenti, comunemente denominato bullismo, mi sono soffermata sui concetti base di mia conoscenza e ho tratto le mie modestissime conclusioni.
Il bullismo, si sa, denota una persona che usa la propria forza o il proprio potere per intimorire o danneggiare una persona più debole. La caratteristica più evidente del comportamento da bullo è chiaramente quella dell’aggressività rivolta verso i compagni, ma molto spesso anche verso i genitori e gli insegnanti perché, il giovane spavaldo e prepotente, ha un forte bisogno di dominare gli altri. Naturalmente, ci sono forme di bullismo differenti che, non solo per dovere di cronaca, cito per avere un quadro leggermente più chiaro rispetto a quello che comunemente si ha.
Si è soliti distinguere tre forme di bullismo:
Fisico, ossia colpire con pugni o calci, appropriarsi di, o rovinare, gli effetti personali di qualcuno;
Verbale, ossia deridere, insultare, prendere in giro ripetutamente, fare affermazioni razziste;
Indiretto, ossia diffondere pettegolezzi fastidiosi e offensivi, escludere dai gruppi di aggregazione la persona presa di mira.
Dopo la breve parentesi relativa alla “classificazione delle forme”, mi sono chiesta quali potevano essere le condizioni che favoriscono il fenomeno e, devo ammettere, che qui mi sono persa nei meandri dei miei pensieri perché di “motivazioni” che portano ad un comportamento aggressivo potrebbero essercene una miriade e raggrupparle in un ordine preciso e coerente mi è risultato particolarmente difficoltoso.
Sicuramente un ruolo rilevante è da attribuire al temperamento dell’adolescente. Un atteggiamento negativo di fondo, caratterizzato da mancanza di affetto e di calore da parte delle persone che si prendono cura dell’adolescente sin dalla più tenera età, indubbiamente è un fattore aggiuntivo nello sviluppo di modalità aggressive nelle relazioni con gli altri. Ma anche l’eccessiva permissività e tolleranza manifestata verso i coetanei e i fratelli crea le condizioni per lo sviluppo di una modalità aggressiva, prepotente e violenta stabile.
Continuando a seguire il flusso dei miei pensieri, tra le origini del comportamento aggressivo, altrettanto rilevante ritengo il ruolo ricoperto dal modello genitoriale nel gestire il potere. L’eccessivo uso di punizioni fisiche porta l’adolescente ad utilizzarle come strumento per far rispettare le proprie regole. Sicuramente è importante che siano espresse le regole da rispettare e da seguire ma non è educativo ricorrere alla punizione fisica. Ma queste non sono le uniche cause del fenomeno, anzi, si può dire che esso è inserito in un fitto reticolo di fattori concatenati tra loro. È comunque certo che le condotte inadeguate, negli adolescenti, si verificano con maggiore probabilità quando i genitori non sono a conoscenza di ciò che fanno i figli o quando non hanno saputo fornire in maniera appropriata i limiti oltre i quali certi comportamenti non sono consentiti. Le forme educative rappresentano, infatti, un fattore cruciale per lo sviluppo o meno delle condotte non conformi alle regole del vivere civile. È interessante sottolineare come il grado di istruzione dei genitori, il livello socio-economico e il tipo di abilitazione non sembrano correlate con le condotte aggressive dei figli. A livello sociale, ad esempio, si è visto come anche i fattori di gruppo favoriscano questi episodi. All’interno del gruppo c’è un indebolimento del controllo e dell’inibizione delle condotte negative e si sviluppa una riduzione della responsabilità individuale. Questi fattori fanno sì che in presenza di ragazzi aggressivi anche coloro che generalmente non lo sono, lo possano diventare.
Potrei dilungarmi all’infinito sulle possibili cause che provocano il fenomeno ma vorrei concentrare la mia attenzione sulla prevenzione ricordando che, solitamente, i luoghi considerati a rischio per azioni di bullismo sono gli edifici scolastici, il tratto di strada che li separa dall’abitazione e, in generale, tutti i luoghi di aggregazione giovanile.
Per quanto riguarda gli interventi… i soggetti interessati sono, oltre gli alunni, gli insegnanti e i genitori. Sarebbe utile, infatti, che famiglia ed istituzione scolastica si facessero carico dei suddetti problemi attivando una programmazione contro le prepotenze e promuovendo interventi tesi a costruire una cultura del rispetto e della solidarietà tra gli alunni e tra alunni ed insegnanti. Alcuni studi hanno messo in evidenza che l’intervento con bambini e ragazzi deve essere preventivo rispetto a segnali più o meno sommersi del disagio e rispetto alle fisiologiche crisi evolutive. Risulta poco utile agire sul disturbo e sulla psicopatologia ormai conclamata. La specificità di un intervento preventivo è quindi rivolto non soltanto agli alunni (“vittime e carnefici” per intenderci) ma, per ottenere un risultato stabile e duraturo nel tempo, va esteso a tutta la comunità degli “spettatori”. Ritengo importante sottolineare questo punto perché è inefficace l’intervento psicologico individuale sul “bullo”. Il bullo, infatti, non è motivato al cambiamento in quanto le sue azioni non sono percepite da lui come un problema.
È inutile sottolineare che, per rendere efficace e duraturo questo tipo di prevenzione, è necessario che gli insegnanti, gli educatori e le famiglie collaborino come modelli e come soggetti promotori di regole adeguate di interazione, affinché l’esempio possa essere acquisito e diventare uno stile di vita per i ragazzi. Ciò assume grande rilevanza se si considera che le competenze sociali assimilate durante l’infanzia diventano tratti fissi del carattere dell’adolescente. Il compito degli insegnanti è quindi quello di intervenire precocemente sugli atteggiamenti scorretti degli allievi finché persistono ancora le condizioni per modificarli. Da questo punto di vista è importantissimo il rapporto scuola/famiglia e la volontà, da ambo le parti, di perseguire degli obiettivi comuni affinché non vengano trasmessi ai ragazzi valori ambigui ed ambivalenti.
La poca conoscenza del fenomeno, indubbiamente, mi avrà portato alla non considerazione di molti aspetti che gli studiosi del campo riterranno fondamentali ma penso che, tra cercare di capire e far finta di non sentire e non vedere, è meglio cercare di capire e, si spera, di  “sentire e vedere”. 

Tina Cancilleri

domenica 4 novembre 2012

Commistione tra crimine organizzato e impresa…“Parliamone” con Raffaele Cantone…

Cari lettori,
in un mondo che non vede...non sente e...non parla...ritengo utile contrapporre la vista...l'udito e...la parola...
Troppo spesso si fa finta di non vedere e sentire e troppo spesso "perdiamo" l'uso della parola semplicemente perchè è più comodo non vedere e non sentire...
Già! E' più facile far finta che un problema non esista piuttosto che affrontarlo e guardarlo negli occhi!
Ed è in questo chiaro/scuro del nostro vedere/non vedere e sentire/non sentire che si trovano a lavorare...ad operare i rappresentanti di un'istituzione che dovrebbe appartenere a tutti: la Giustizia.
Già! Proprio così! Capita spesso che i magistrati rimangono emarginati...isolati...discriminati "semplicemente" perchè hanno scardinato un sistema...demolito e minato la sicurezza di istituzioni illegali che, in una società civile, vanno osteggiate e rimosse ma di cui...purtroppo...frequentemente ed in maniera consapevole...noi  facciamo uso...Già! Non esiste contesto sociale e lavorativo in cui non si debbano fare i conti con quell' istituzione "altra" definita criminalità organizzata e noi...nostro malgrado...sovente...rimaniamo vittime di un sistema...il nostro sistema: il silenzio.
E...giusto per non lasciare troppo spazio al silenzio...


Commistione tra crimine organizzato e impresa…
“Parliamone” con Raffaele Cantone…
L’esperienza di magistrato inquirente mi ha portato a tracciare quattro possibili identikit, ciascuno dei quali individua una diversa modalità di commistione fra crimine organizzato e impresa. Una semplificazione necessaria che consente di mettere in luce le sfumature dal bianco al nero, passando per varie tonalità di grigio che caratterizzano intrecci molto complessi, e che può valere oltre che per la camorra anche per la mafia e la ‘ndrangheta.


Il CAMORRISTA IMPRENDITORE: è un soggetto inserito appieno nell’organizzazione criminale, spesso con ruoli di vertice, che marginalmente svolge attività commerciali o imprenditoriali. È questa una realtà tutt’altro che rara. I vecchi boss del clan dei casalesi, per esempio, gestivano rilevanti attività agricole e zootecniche (specialmente allevamenti di bufale). Il camorrista imprenditore è pericoloso perché è capace di scardinare le regole della libera concorrenza, gestendo le attività economiche con metodi che no sono certo quelli del mercato. Non avrà mai problemi di debiti, contrasti con i fornitori o vertenze sindacali con i propri dipendenti. Questa tipologia, però, sta scomparendo grazie alle leggi antimafia. Le misure di prevenzione patrimoniale, infatti, consentono di colpire facilmente queste attività e i loro beni, per cui mafiosi e camorristi non volendo rischiare le hanno abbandonate.

L’IMPRENDITORE VITTIMA: è l’estorto, colui al quale la criminalità si rivolge per farsi pagare il pizzo, non necessariamente in denaro. Per sopravvivere spesso è costretto a caricare i costi dell’estorsione sui prodotti finali, con una perdita di competitività cui si aggiunge il rischio di ulteriori vessazioni. In questa categoria rientrano molti imprenditori onesti che non hanno la forza di sottrarsi alle intimidazioni. Talvolta, però, il rapporto vittima-carnefice può evolversi in qualcos’altro. soprattutto nelle realtà di provincia, dove le conoscenze sono più strette, chi paga può essere tentato di chiedere al capoclan qualche favore in cambio, per esempio il recupero di un credito, la soluzione di una vertenza di lavoro, un aiuto contro la burocrazia. Accade spesso, e il rischio per l’imprenditore, del tutto imprevisto, è di finire stritolato nel sistema criminale. Il sodalizio, infatti, risolve i problemi con i propri metodi, efficaci quanto sbrigativi, ma da quel momento in poi considera la vittima una sorta di socio al quale poter chiedere non più solo denaro, ma posti di lavoro, rifugi per i latitanti, ospitalità per incontri riservati e altro ancora. L’imprenditore vessato rischia così di trasformarsi in un imprenditore fiancheggiatore.

L’IMPRENDITORE DI RIFERIMENTO: è una figura intermedia, dai contorni più sfumati, che appartiene a quella che viene definita la «zona grigia». Molto presente nelle realtà ad alto tasso mafioso, si manifesta in diverse forme, difficili quindi da incasellare secondo categorie precise. In questa tipologia rientra a pieno titolo la cosiddetta «testa di legno», un soggetto che risulta formalmente intestatario di beni, attività economiche e imprenditoriali, cui i criminali si rivolgono per aggirare la legislazione antimafia. Di fatto, è un prestanome. Ben diversa è la figura dell’operatore economico che ricicla o reinveste il denaro proveniente dalle attività illecite, restituendolo al clan «ripulito» o moltiplicato. Utilizzando soldi «sporchi» può perfino optare per investimenti non remunerativi, destabilizzando il mercato: il suo obiettivo principale, infatti, non è generare utili ma cancellare la provenienza di quelle risorse. La tipologia certamente più inquietante nella quale mi sono imbattuto nel corso della mia esperienza è quella della dell’imprenditore tecnicamente capace, che mette a disposizione dei gruppi criminali il suo Know-how, ottenendo, grazie ai legami vantati da questi ultimi nelle amministrazioni pubbliche, commesse e appalti. Questo impresario, formalmente in regola con le certificazioni antimafia e con le iscrizioni per partecipare ai lavori pubblici, passerà poi parte dei lavori ottenuti a imprese vicine al clan attraverso il sistema dei «noli a freddo o a caldo» (nel primo caso si noleggia il solo macchinario, nel secondo anche un operaio per l’utilizzo del mezzo), aggirando in tal modo le regole in materia di subappalti. Sarà lo stesso sodalizio che provvederà a individuare chi dovrà operare le forniture (ferro, cemento) o svolgere i servizi (il movimento terra), assicurandosi vantaggi e guadagni su più fronti. L’imprenditore di riferimento riconoscerà alla criminalità una percentuale degli utili e, quindi, ripagherà in denaro i favori ricevuti. E diventerà a sua volta uno strumento prezioso per il «sistema», perché fornendo posti di lavoro e commesse a persone e ditte gradite al boss, genera consenso sociale, necessario per il controllo criminale del territorio. Viceversa, avrà un notevole vantaggio rispetto a tutti i concorrenti e potrà utilizzare il gruppo che lo sostiene per risolvere qualsiasi problema. Questo profilo ricorre soprattutto nei settori dei lavori pubblici e dell’edilizia, ma può presentarsi in modo non dissimile nel campo dei servizi e delle distribuzione di beni. Da indagini giudiziarie è emerso come in alcune zone della Campania diverse rappresentanze commerciali godessero di posizioni di vero monopolio, proprio grazie alla capacità della camorra di «consigliare» l’acquisto di un certo tipo di prodotto piuttosto che di un altro.

L’IMPRENDITORE FIANCHEGGIATORE: come poco sopra accennato, è di solito l’evoluzione dell’imprenditore vittima che, in un primo momento, paga il pizzo. Pur essendo estraneo al clan, quando ne ha bisogno chiede e ottiene favori dalla criminalità organizzata. Per le motivazioni più diverse: recuperare dei crediti, ottenere finanziamenti a tassi agevolati (un’usura a basso interesse), risolvere controversie con i dipendenti, assicurarsi entrature nella pubblica amministrazione. In questa categoria, che appartiene anch’essa alla «zona grigia» del malaffare, possono rientrare anche i grandi imprenditori, non necessariamente meridionali, che vincono grossi appalti nel settore dei lavori pubblici in zone ad alto tasso di criminalità. Per premunirsi da qualsiasi problema, attraverso mediatori ben inseriti si affidano quasi integralmente alle imprese di riferimento dei clan, che porteranno a termine l’opera garantendo tranquillità ai cantieri che si incaricheranno di versare loro stesse il pizzo ai boss locali. Lo stesso meccanismo riguarda anche i colossi della distribuzione.

Questa breve analisi rende chiaro un punto: è necessario recidere i rapporti «incestuosi» fra le mafie e l’impresa se si vogliono raggiungere risultati concreti nella lotta alla criminalità organizzata. Non si otterrà mai nulla arrestando solo estorsori o sicari. Va infatti bonificato quel terreno di coltura che consente ai germi negativi di proliferare. Terreno che, purtroppo, è rappresentato spesso da imprese che lavorano in modo illegale e spregiudicato.

Tratto da:
R. Cantone, Operazione Penelope, Mondadori, Cles 2012, pp. 49-53.


venerdì 2 novembre 2012

A proposito di...Desideri infantili e/o adulti infantili



Desideri infantili e/o adulti infantili

“I desideri infantili resistono a tutte le insidie dello spirito adulto, e spesso gli sopravvivono sino alla vecchiaia”.
Milan Kundera


I desideri infantili resistono…resistono sino all’età adulta…”sopravvivono sino alla vecchiaia”…
Questa frase, presa così com’è, può sembrare un’esagerazione…una forzatura…l’esasperazione di un problema…
Già, un problema! Perché di questo si tratta…
È un problema continuare a fare gli eterni ragazzini, quando, in realtà, ci si dovrebbe far carico delle proprie responsabilità di individuo adulto…
Già! Di individuo adulto…di individuo dotato di coscienza critica e, pertanto, capace di scindere ciò che è un “desiderio adolescenziale, infantile” da ciò che è il ruolo di individuo adulto, anziano, che egli è chiamato ad espletare in quanto membro di una società…
E invece più passa il tempo e più mi accorgo che “l’individuo maturo”, in realtà, così maturo non è e che la nostra società “sforna” individui egoisti…individualisti ed egocentrici…
Talmente egocentrici da non dare spazio nemmeno a chi rappresenta la loro estensione nel mondo, ossia i loro figli. A volte, osservandoli, si ha come l’impressione che essi vivano la loro genitorialità come un gioco e che, nel momento in cui quel gioco non piace più o diventa troppo complicato o difficile da gestire, basta semplicemente rilegarlo in un angolo buio e oscuro e far finta che non esista.
Già! Perché è molto più facile far finta che il problema non ci sia piuttosto che affrontare il disagio della consapevolezza…la consapevolezza che si è troppo impegnati con se stessi e con il soddisfacimento dei propri bisogni per potersi occupare di coloro che, invece, di loro, del loro sostegno, della loro guida hanno bisogno…
Ed è da questa mancata presa d’atto…da questa mancata presa di coscienza che emergono le criticità di due generazioni che, pur scontrandosi, non trovano un punto d’incontro…
Ma, del resto, come trovarlo se manca il nodo di congiunzione, il fulcro, per poter avviare il dialogo?
Già! Manca l’interesse, il coinvolgimento, il trasporto emotivo degli adulti nei confronti dei più giovani, degli adolescenti, dei figli…dei loro figli…di quel ”dettaglio insignificante” che si chiama figlio…adolescente…giovane…
Proprio così! Manca la voglia di mettersi in discussione e di rivedere le proprie aspettative…le proprie priorità in funzione di coloro che…in base a quelle aspettative e a quelle priorità iniziano ad affacciarsi al mondo e se ne appropriano…
Un mondo imperfetto…un mondo costruito in funzione delle esigenze dei grandi senza la valutazione di un occhio attento nei confronti dei più piccoli…Un mondo in cui il “sacrificio” vien chiesto ai piccoli per poter soddisfare i sogni ed i desideri dei grandi…un mondo in cui le aspirazioni ed i traguardi personali di un genitore sono più importanti del benessere psicologico di un figlio…Un mondo in cui un figlio…spesso si vede privato della figura del genitore, dell’adulto, semplicemente perché quell’adulto, il proprio genitore, è troppo impegnato con se stesso per avvertire la sua sofferenza, il suo disagio, la sua rabbia, il suo dissenso…

                Tina Cancilleri