giovedì 19 settembre 2013

Equivoche malattie o malattie equivoche?

Equivoche malattie o malattie equivoche?
A volte mi chiedo cosa spinga i medici a sottovalutare il malessere di un paziente. Forse perché, a pelle, il paziente non gli sta simpatico; forse perché i sintomi della malattia non sono “sensazionali”, o forse perché i sintomi non presentano nemmeno tutte le caratteristiche per rientrare in una diagnosi compiuta. Forse è proprio questa  difficoltà ad “uscire dagli schemi da manuale” che porta, poi, a forme di sofferenze diverse da ambo i lati.
Il medico perché “non capisce o non ha voglia di mettersi in discussione” con una diagnosi di difficile soluzione ed il paziente perché si ritrova a dover lottare contro i muri dell’incomprensione e contro se stesso perché inizia a pensare di essere lui il problema.
Ed è così che inizia il calvario di tutti quei pazienti che si ritrovano ad essere “accusati” di ipocondria semplicemente perché il proprio malessere non rientra tra i canoni comuni. Ed è questo “non comune” che porta a sofferenze indescrivibili. Sofferenze che non riguardano solo l’aspetto fisico, ma anche e soprattutto quello psicologico perché non si riesce più a dare una giusta dimensione al proprio dolore. Ed è così che inizia una morte psicologica lenta, graduale, progressiva; progressiva come la malattia che li colpisce e non gli dà tregua influenzando e scandendo le loro giornate in base ai suoi ritmi, alle sue esigenze, ai suoi campanellini d’allarme che prima erano capaci di cogliere ma che adesso li lasciano indifferenti. Indifferenti come chi non ha dato loro ascolto ed ha sottovalutato le loro sofferenze e le ha considerate nient’altro che un’espressione di debolezza, di mancanza di forza, di incapacità a tollerare il dolore.
E non importa se adesso si è data una giusta direzione al proprio percorso di malato. Si ha sempre paura che l’impostazione data non sia quella adatta, quella idonea a loro perché troppe sono state le “inversioni di rotta” e troppe sono diventate le perplessità su un’ipotetica soluzione al proprio problema. Non è un caso che il tempo trascorso non abbia lenito il dolore ma lo abbia accentuato e che una “terapia del dolore” venga vista come l’ennesima invadenza, l’ennesima violenza, l’ennesimo tentativo di attenuare un dolore che, ormai, non si è più capaci di cogliere perché non fa più parte del loro “vocabolario” il concetto di “normalità”…
Una “normalità” persa per sempre e che ha bisogno di essere ricostruita con canoni diversi: quelli del malato cronico…


                   Tina Cancilleri

Nessun commento:

Posta un commento