“Portatrice
sana”di…
“Voglio
vederci bene e voglio che gli altri mi vedano. Gli altri, quelli che ho
sfuggito per mesi, chiudendomi dentro casa, quelli che ti guardano pensando
com’eri, a come sei, un lampo fuggevolissimo di compassione, una preghiera al loro
dio perché gli eviti questa fine. I vicini”.
Cesarina
Vighi
È
sempre difficile confrontarsi con una malattia, ma è ancor più difficoltoso
accettarla, “sentirla” tua.
Ed
è come sentirsi degli estranei non soltanto verso se stessi, ma anche verso gli
altri perché non ci si “vede” più. Ed è come esser divenuti trasparenti
all’improvviso e non sapere da dove ricominciare per attingere colore,
consistenza, significato, spessore. Uno spessore, un significato, una
consistenza ed un colore che non si vedono perché assumono sfumature diverse;
sfumature che, inizialmente, non si è in grado di cogliere perché tante le
paure che ci assalgono ed infinite le inquietudini che ci assediano e fanno man
bassa di noi, delle nostre certezze,delle nostre insicurezze.
Tutto
intorno a noi vacilla, e non c’è spazio per gli altri, come non c’è spazio per
se stessi, per la ricostruzione, per la riedificazione di se stessi.
Tutto
ci porta a schivare noi stessi e gli altri per la paura di non essere in grado
di reggere il confronto, lo sguardo di coloro che ci circondano e che vedono in
noi “il volto della malattia”. “Un volto” che vediamo soprattutto noi perché
non siamo in grado di eludere i cattivi pensieri e gli stati ansiogeni che noi
stessi ci creiamo perché siamo incapaci di guardare oltre quella “diversità”
che siamo noi stessi ad incrementare, a fomentare, a stimolare con le nostre
chiusure, i nostri presunti limiti, i nostri probabili confini.
E
non c’è nulla che riesca a distoglierci da quella che è la nostra nuova
condizione, il nostro nuovo modo di essere, il nostro modo di vederci e di
rapportarci agli altri. Tutto ci riporta ineluttabilmente alla realtà…alla
nostra realtà.
E
non riusciamo a vedere nessuna forma di concretezza tranne quella di quel
“male”, di quella “condanna” che ci “rode dentro” e che ha stravolto la nostra
esistenza rendendoci diversi, distanti, difformi da noi stessi e dagli altri.
Ma
è nel momento stesso in cui quel “male”, quella “condanna”, ci allontanano anni
luce da ciò che eravamo e ciò che siamo diventati che riemerge la voglia di
ricostruire, reinventare e rivedere se stessi.
Ed
è come se tutto ad un tratto un lampo di luce avesse acceso in noi
quell’orgoglio sopito e ci riportasse in vita facendo riaffiorare fierezza,
forza, coraggio, ardore.
Ed
è proprio quell’ardore, quella nuova luce negli occhi che ti spinge a creare
movimento, dinamismo, vivacità intorno a te stessa e alle persone che ti circondano e che, dopo tanto tempo o
per la prima volta rivedono/vedono la vera te stessa.
Tina Cancilleri
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